La rivolta di Sobibor
Ormai tutto era perduto in quel luogo terribile che toglieva dignità, speranza, umanità alle persone. Eppure, qualcuno trovò il coraggio di sperare lo stesso. Osò pensare che si poteva provare a fuggire, a cercare una minima possibilità di salvezza.
Leon Feldhendler aveva un piano.
E la speranza a volte può essere contagiosa. Anche perché non sperare voleva dire morire: erano tutti rinchiusi nel famigerato campo di sterminio di Sobibor, dove il numero delle persone uccise varia tra i 160.000 e le 250.000. Una vera e propria fabbrica della morte, atrocemente veloce ed efficiente.
Leon Feldhendler aveva un piano: scappare da Sobibor.
Ci provò la prima volta in primavera, l’idea era di avvelenare le guardie, prendere le loro armi e fuggire. Ma furono scoperti e cinque tra gli aspiranti fuggiaschi furono immediatamente fucilati. D’altronde Leon era un uomo mite, non un soldato: prima di essere deportato era il capo del Consiglio Ebraico del suo villaggio.
Ma quando a Sobibor fu deportato Aleksandr Pečerskij, ufficiale dell’Armata rossa di origine ebraica, il progetto di evasione tornò in auge, questa volta affidando il comando a Pečerskij.
Il 14 ottobre 1943 iniziò la rivolta.
I prigionieri, con la sola forza della disperazione, e con qualche rudimentale attrezzo che erano riusciti a rimediare, uccisero 11 ufficiali delle SS. Ma anche questa volta furono scoperti. Provarono lo stesso a lanciarsi fuori dal campo, pur sapendo però che era minato. I primi a scappare morirono dilaniati dalle esplosioni delle mine, ma in questo modo, grazie al loro sacrificio, gli altri prigionieri, dietro, ebbero la possibilità di fuggire.
Erano seicento in tutto. Seicento persone che volevano solo vivere e sottrarsi alla follia omicida nazista.
Ma solo la metà riuscì a superare il confine del campo.
Di questi, molti, troppi, furono catturati di nuovo dai nazisti e poi uccisi.
Alla fine, a salvarsi furono poche decine di persone.
Tra loro Leon Feldhendler (che però verrà assassinato alla fine della guerra in circostanze poco chiare) e Aleksandr Pečerskij, che una volta libero si unì a un gruppo di partigiani sovietici per combattere i nazisti.
È una storia nota, raccontata anche nel film “Fuga da Sobibor” di Jack Gold del 1987.
Ma è sempre bene raccontarla. Per usare le parole di Liliana Segre: “Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l'indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”..
Per questo non si può oggi, fare finta di non conoscere la storia, o non conoscerla per davvero…
La farfalla della gentilezza
(In foto: Leon Feldhendler e
Aleksandr Pečerskij
)Leon Feldhendler aveva un piano.
E la speranza a volte può essere contagiosa. Anche perché non sperare voleva dire morire: erano tutti rinchiusi nel famigerato campo di sterminio di Sobibor, dove il numero delle persone uccise varia tra i 160.000 e le 250.000. Una vera e propria fabbrica della morte, atrocemente veloce ed efficiente.
Leon Feldhendler aveva un piano: scappare da Sobibor.
Ci provò la prima volta in primavera, l’idea era di avvelenare le guardie, prendere le loro armi e fuggire. Ma furono scoperti e cinque tra gli aspiranti fuggiaschi furono immediatamente fucilati. D’altronde Leon era un uomo mite, non un soldato: prima di essere deportato era il capo del Consiglio Ebraico del suo villaggio.
Ma quando a Sobibor fu deportato Aleksandr Pečerskij, ufficiale dell’Armata rossa di origine ebraica, il progetto di evasione tornò in auge, questa volta affidando il comando a Pečerskij.
Il 14 ottobre 1943 iniziò la rivolta.
I prigionieri, con la sola forza della disperazione, e con qualche rudimentale attrezzo che erano riusciti a rimediare, uccisero 11 ufficiali delle SS. Ma anche questa volta furono scoperti. Provarono lo stesso a lanciarsi fuori dal campo, pur sapendo però che era minato. I primi a scappare morirono dilaniati dalle esplosioni delle mine, ma in questo modo, grazie al loro sacrificio, gli altri prigionieri, dietro, ebbero la possibilità di fuggire.
Erano seicento in tutto. Seicento persone che volevano solo vivere e sottrarsi alla follia omicida nazista.
Ma solo la metà riuscì a superare il confine del campo.
Di questi, molti, troppi, furono catturati di nuovo dai nazisti e poi uccisi.
Alla fine, a salvarsi furono poche decine di persone.
Tra loro Leon Feldhendler (che però verrà assassinato alla fine della guerra in circostanze poco chiare) e Aleksandr Pečerskij, che una volta libero si unì a un gruppo di partigiani sovietici per combattere i nazisti.
È una storia nota, raccontata anche nel film “Fuga da Sobibor” di Jack Gold del 1987.
Ma è sempre bene raccontarla. Per usare le parole di Liliana Segre: “Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l'indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”..
Per questo non si può oggi, fare finta di non conoscere la storia, o non conoscerla per davvero…
La farfalla della gentilezza
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