"Perché correre in Messico, se dobbiamo strisciare a casa nostra?"

“Perché correre in Messico, se dobbiamo strisciare a casa nostra?” Era una domanda legittima da porsi negli Stati Uniti del 1968, quando molti diritti civili erano ancora da conquistare per la comunità nera.
Allora perché andare alle Olimpiadi in Messico? Forse sarebbe stato più giusto boicottare l’evento sportivo e far pesare agli Stati Uniti la mancanza di quelli che erano gli atleti più forti, che avrebbero sicuramente vinto medaglie?
Pochi mesi prima Martin Luther King era stato assassinato. Anche Robert Kennedy era stato ucciso.
Pochi mesi prima il fondatore del Progetto Olimpico per i diritti Umani, Harry Edwards, aveva ricevuto minacce di morte, i suoi cani uccisi e la macabra sigla KKK incisa sulla sua macchina.
Gli atleti neri chiedevano giustizia e uguaglianza. Anche nello sport: chiedevano che venissero restituite le medaglie a Muhammad Ali (medaglie che gli furono ritirate a seguito del suo rifiuto di andare in Vietnam). Volevano che anche i neri potessero diventare allenatori. Volevano semplicemente trattamenti uguali per atleti bianchi o neri.
Alla fine, però, non boicottarono le Olimpiadi e andarono a Città del Messico.
Il 16 ottobre 1968 lo statunitense Tommie Smith vince i duecento metri piani e ottiene il record mondiale.
Dietro di lui l’australiano Peter Norman e al terzo posto John Carlos, anche lui statunitense.
Arriva il momento solenne della consegna delle medaglie. Ed è uno di quei momenti iconici entrato di diritto nella storia dello sport e non solo. Perché Tommie Smith e John Carlos, a piedi scalzi, sguardo a terra, alzano un pugno chiuso verso il cielo.
Un pugno che urla una storia secolare di ingiustizie e sopraffazioni, di diritti negati e povertà, di emarginazione e razzismo.
Ma è un gesto che non piace al pubblico che fischia ai due atleti, e non piace neanche al presidente del Comitato Olimpico Internazionale, che ordina la loro sospensione dalla squadra americana.
Da lì in poi le ritorsioni, minacce di morte, la fine della carriera da velocisti. E la fine della carriera anche per Peter Norman, l’atleta australiano che pur senza alzare il pugno, aveva solidarizzato con Smith e Carlos, indossando una spilla del Progetto Olimpico per i diritti Umani.
Evidentemente era un gesto troppo rivoluzionario per l’epoca.
Eppure, nessuno di loro rimpianse mai di aver fatto quel gesto che non era un atto rivoluzionario o violento. Ma un semplice urlo di disperazione, che il mondo però non voleva sentire.
La farfalla della gentilezza
(La storia di Smith Carlos è raccontata, tra gli altri, da Lorenzo Iervolino, “Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria”, 66thand2nd, 2017. Riccardo Gazzaniga, in “Abbiamo toccato le stelle. Storie di campioni che hanno cambiato il mondo”, Rizzoli, 2018, racconta invece “l’uomo bianco in quella foto”, cioè Peter Norman”)
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