Rocco Chinnici e la sua battaglia per la legalità

«C’è bisogno di cittadini responsabili. Il rimedio alla mafia è la mobilitazione delle coscienze».
Così diceva Rocco Chinnici, che oggi compirebbe 97 anni, se la mafia non lo avesse ucciso.
E chissà cosa penserebbe di quello che sta accadendo in questo paese, davanti a tante coscienze che forse non si stanno mobilitando quanto servirebbe, davanti a tanta memoria corta.
Lui, Chinnici, la mafia la conosceva bene, perché aveva capito che non era un problema solo siciliano, riassumibile nel binomio coppola e lupara. No. La mafia era anche politica, imprenditoria, stato, perché:
“La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”.
Tanta lucidità faceva paura ai mafiosi.
La mafia aveva paura anche dei suoi metodi innovativi: Chinnici credeva nel lavoro di gruppo, per unire le forze, convergere energie e condividere informazioni. E quindi non lavorava da solo, ma si coordinava con altri magistrati, tra cui i giovani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E credeva nelle moderne tecnologie per incrociare dati e ottenere risultati più velocemente.
Soprattutto Chinnici credeva nei giovani come unica speranza per il futuro. Per questo andava nelle scuole e nelle università a parlare di mafia e di droga. A cercare di svegliare nei ragazzi gli anticorpi della legalità, in un mondo divorato dalla corruzione.
Lui sapeva di essere in pericolo, temeva per i magistrati che lavoravano con lui, in particolare per Falcone e Borsellino, e sapeva anche di essere isolato se non addirittura delegittimato, come purtroppo capita spesso. Chiedeva aiuto alle istituzioni, per avere organico, strumenti di indagine, ma soprattutto sostegno. Ma ieri come oggi, qualcuno invece di puntare il dito contro la mafia, lo puntava contro l’antimafia, sparlando di una “mitizzazione di mafia e di enfatizzazione di misure di sicurezza” a proposito del “metodo” Chinnici.
Purtroppo non c’era alcuna enfatizzazione: nel 1980 arrivarono le prime telefonate minatorie:
“Il nostro tribunale ha deciso che lei deve morire e l’ammazzeremo dovunque lei si trovi”.
E così accadde:
29 luglio 1983: alle 8 del mattino Rocco Chinnici sta uscendo per andare in tribunale, quando una macchina imbottita di tritolo esplode proprio davanti la sua abitazione.
Chinnici muore insieme ai due uomini della scorta: Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta. E viene ucciso dall’autobomba anche il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Inoltre, l’esplosione ferisce una ventina di passanti, adulti e bambini.
Uno scenario da guerra.
Solo venti anni dopo la Corte di Cassazione condannerà definitivamente mandanti ed esecutori, tra cui Giovanni Brusca e Nino Madonia.
Nel 2014 è stato dedicato a Rocco Chinnici un albero nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo, a Milano.
Tuttavia, il modo migliore per onorare la memoria di Chinnici è mobilitare le coscienze: essere cittadini responsabili, credere nella legalità, agire per la legalità.
La farfalla della gentilezza
(Le citazioni sono tratte dal libro di Fabio De Pasquale, Eleonora Iannelli, “Così non si può vivere”, Castelvecchi, 2013).
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