Un vero fuoriclasse

Ferdinando Valletti amava il calcio. Era bravo, forse non un fuoriclasse, ma sicuramente ci metteva cuore, gambe e fiato. Per qualche anno giocò prima nel Verona, poi nel Milan, come mediano. Un problema al menisco però pone fine alla carriera da professionista.
Allora cambia vita, pur continuando ad amare il calcio: si sposa con Lidia, lavora all’Alfa Romeo di Milano, poi la gioia della gravidanza della moglie. Sarebbe tutto bello e tranquillo se non fosse che la sera del 2 marzo 1944 Ferdinando Valletti viene arrestato per aver organizzato uno sciopero generale. È un delatore a denunciare la sua attività antifascista, un “amico”, che non esitò a venderlo ai fascisti e ai nazisti.
Viene caricato su un treno, e deportato al campo di concentramento di Mauthausen prima, e di Gusen poi, e assegnato alla “squadra cemento”, per scavare gallerie. Un lavoro durissimo e faticoso che richiede energie. E soprattutto richiederebbe un’alimentazione adeguata che però gli è negata. Ferdinando è allo stremo, denutrito e senza forze, e nella dura legge dei campi di concentramento, se non sei in grado di lavorare, sei inutile, e quindi destinato alle camere a gas. Ma Ferdinando vuole vivere: ha solo 22 anni e una figlia in arrivo. Non può e non vuole arrendersi.
Sarà proprio il calcio a salvare Ferdinando: viene arruolato nella squadra delle SS, una macabra istituzione nei campi, e trasferito a lavorare nelle cucine come sguattero. Stando in cucina gli è più facile procurarsi un po’ di cibo, ma lui non si accontenta di sopravvivere, non riesce a pensare solo a se stesso. Nell’orrore del campo, che vuole rendere i prigionieri disumanizzati e degradati in una spietata lotta per la sopravvivenza, Ferdinando Valletti è rimasto umano, ha stretto dei legami con i suoi compagni di lager. Quindi per lui, che ha sempre fatto gioco di squadra, è impensabile ignorare la disperazione dei suoi amici. E così sfrutta il suo lavoro in cucina per portare di nascosto il cibo anche a loro. Sa bene di rischiare moltissimo, ma non può fare altrimenti. Lui rischia la vita, ma in questo modo salva la vita di altri prigionieri, ad esempio Aldo Carpi, pittore che scriverà un dettagliato diario, in cui tra le altre cose racconterà il coraggio di Ferdinando Valletti.
Coraggio che è servito per far arrivare sia Ferdinando sia Aldo vivi fino all’arrivo degli americani nel maggio del 1945.
Ferdinando Valletti potrà così tornare a casa e abbracciare la figlia che non aveva ancora conosciuto, e ricominciare la sua vita cercando di dimenticare gli orrori vissuti nei campi di concentramento. Non vuole raccontare nulla, per il troppo dolore. Non cerca nemmeno vendetta o giustizia nei confronti del delatore. Vuole solo una vita normale.
Fino a quando, una volta in pensione, non sente l’urgenza di raccontare ai giovani la sua storia. Passerà quindi gli ultimi anni della sua vita nelle scuole per testimoniare la sua esperienza nel lager, il suo “contributo per dare una memoria al futuro”.
E il minimo che possiamo fare noi oggi, è ricordare la sua storia, il suo coraggio, ma anche il suo straordinario amore per il prossimo:
“Ho perdonato tutto il male che mi è stato fatto perché io credevo e credo nell’umanità. Certo perdonare non vuol dire dimenticare!”

 La farfalla della gentilezza
(La figlia di Ferdinando, Manuela Valletti Ghezzi, ha raccolto le memorie del padre, nel libro: ”Deportato I57633. Voglia di non morire” Ass. Culturale F. Valletti, 2012).

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(Pubblicato il 1 settembre 2021)