Nikolaj Trusevič era il portiere della Dinamo Kiev. Un campione indiscusso, amatissimo dai tifosi. Però nel giugno 1941 i nazisti occuparono l’Ucraina, condannando la popolazione alla fame e alla disperazione, e a settembre arrivarono a Kiev. Fecero circa 600.000 prigionieri, ma la crudeltà nazista raggiunse il culmine il 29 settembre 1941 quando in una sola giornata uccisero 33.771 ebrei (e anche rom, nazionalisti ucraini, comunisti). Donne, anziani, bambini, tutti furono fucilati e poi gettati nel burrone di Babij Jar. Non era più tempo per pensare al calcio. E in ogni caso i nazisti avevano sciolto le due squadre di Kiev, sia la Dinamo che la Lokomotiv perché i giocatori erano sospettati di appartenere alla polizia segreta sovietica. Nikolaj Trusevič cadde in disgrazia, e come la maggior parte della popolazione di Kiev pativa la fame, fino a quando un giorno fu riconosciuto da Josif Kordik, un ricco imprenditore di origine ceca che si faceva passare per austriaco e quindi non era soggetto alle discriminazioni e umiliazioni che subivano gli ucraini. Kordik, che era un grande tifoso oltre che ammiratore di Trusevič, possedeva un panificio. Non solo assunse Trusevič, ma gli chiese di rintracciare i suoi ex compagni di squadra, per offrire loro lavoro, alloggio, protezione. E magari ricominciare a giocare. Per Trusevič e la sua famiglia questo rappresentava la salvezza. Nell’estate del 1942 i nazisti decisero di reintrodurre il calcio a Kiev, per dare una parvenza di normalità agli abitanti della città piegati dalla fame e dalla paura. Indissero un torneo al quale si iscrissero le varie forze di occupazione: quattro squadre formate da ungheresi, rumeni e tedeschi (presenti sia in una squadra di soldati semplici, sia nella Flakelf, composta dai migliori atleti e ufficiali tedeschi), una squadra di collaborazionisti ucraini, la Ruch, e infine la FC Start, la squadra di Trusevič e i suoi compagni salvati e protetti da Kordik. Solo che a differenza degli altri giocatori, loro erano denutriti, debilitati, poco allenati. E non avevano nemmeno le scarpe adatte per giocare. Però erano incredibilmente bravi, e armati solo della loro fame di rivincita, sbaragliarono tutte le altre squadre segnando 43 gol in 7 partite. Le gesta della FC Start risollevarono il morale degli abitanti di Kiev, che in quelle vittorie non vedevano solo un successo sportivo, ma anche una rivalsa contro gli occupanti, una speranza di resistenza e libertà. Solo che i nazisti non avevano nessuna intenzione di farsi umiliare e quindi pretesero dalla FC Start una “partita di ritorno” contro la Flakelf, una partita che la FC Start avrebbe fatto bene a non vincere. Il giorno della partita, un ufficiale delle SS intimò ai giocatori della FC Start di fare il saluto nazista prima dell’inizio. Loro acconsentirono, ma una volta in campo, al lugubre “Heil Hitler” pronunciato dalla Flakelf risposero con un iconico: “Fitzcult Hura!” Viva lo sport! E no, non ci pensavano proprio a perdere, anche se le conseguenze potevano essere terribili, ma loro volevano tenere alto l’onore dell’Ucraina. Nonostante un arbitraggio scandaloso vinsero 5 a 3. Avrebbero potuto fare un sesto gol, ma l’attaccante Klimenko decise di umiliare definitivamente gli avversari arrivando fino alla porta, per poi girarsi e tirare la palla a centro campo. Un’umiliazione che i nazisti non intendevano perdonare. E infatti dopo pochi giorni dalla finale, la Gestapo si presentò al panificio per arrestare tutti i giocatori dello Start. Ne trovarono solo 8, li arrestarono, li torturarono, per sapere dove fossero gli altri. Non parlarono. Uno di loro non sopravvisse alle torture, gli altri finirono in un campo di detenzione. Nel 1943 Trusevič, Kuzmenko e Klimenko vennero fucilati e scaraventati nel burrone di Babij Jar. Alcune fonti negano che il tragico destino dei giocatori sia stato in qualche modo collegato alla “partita della morte”, come fu poi ricordata. Probabilmente i calciatori furono arrestati per la loro appartenenza alla resistenza ucraina, in particolare perché accusati di aver messo pezzetti di vetro nel pane destinato ai soldati tedeschi. In ogni caso furono dei calciatori eroi. E quella partita è entrata giustamente nella storia, trasformando un evento sportivo in una sfida “fra un popolo che ha la libertà e uno che non ce l’ha”. La farfalla della gentilezza
(Nicoletta Bortolotti ha raccontato la storia della partita della morte e del portiere Trusevič dal punto di vista di sua figlia Sasha nel bel libro “In piedi nella neve”, Einaudi Ragazzi, 2018, da cui è tratta la citazione finale. Una lettura consigliatissima, non solo per ragazzi).