Nadia che voleva giocare a calcio

Nadia Nadim aveva solo 10 anni quando suo padre fu sequestrato e poi ucciso dai talebani. Vivevano a Kabul, una famiglia dell’alta borghesia afghana, una vita però complicata perché non era facile resistere alla dittatura dei talebani che avevano reso l’Afghanistan un posto dove non si poteva giocare, sognare, andare a scuola. Ma con l’omicidio del padre nel 1998 tutto peggiora.
La mamma di Nadia non ci pensa due volte, deve proteggere le sue cinque figlie, e decide di partire. Non sa dove andare, ma dopo due mesi dalla morte del marito, parte per un viaggio di fortuna nel buio di un camion: sa che deve portare via le sue bambine da quella terra che divora i suoi figli e soprattutto mette in pericolo costante la vita delle donne.
E così quella che era una famiglia benestante, da un giorno all’altro perde tutto, dignità, casa, terra, per andare ad aggiungersi al numero infinito dei rifugiati, dei profughi disperati che cercano un loro posto nel mondo.
Partono per il viaggio della speranza e da clandestine arrivano in Italia. Dove non c’è posto per loro.
Riescono fortunatamente ad arrivare in Danimarca, e, come da copione, finiscono in un campo per rifugiati. La vita lì è durissima, ma almeno sono al sicuro, lontano dall’incubo e dalla violenza dei talebani.
Non parlano la lingua, sono disorientate e indifese. Finché un giorno, oltre le recinzioni del campo, Nadia vede delle bambine che giocano a calcio. Rimane stupita. Non le era mai capitato prima, perché nell’Afghanistan dei talebani tra le tante cose che le bambine non potevano fare c’era anche il calcio.
Ma vedere quelle bambine fa scattare in lei qualcosa, e Nadia, bambina senza più infanzia, inizia a desiderare di inseguire un pallone. All’inizio è complicato pure procurarsi una palla. Però poi ci riesce, e comincia a giocare, dentro il campo, e poi anche fuori. Perché non serve sapere la lingua per giocare, anzi, il pallone può diventare un formidabile strumento di aggregazione.
E Nadia gioca. Gioca e diventa brava, sempre più brava. Tanto che qualcuno la nota, e a 16 anni viene ingaggiata in una squadra. Poi in un’altra, un’altra ancora, ormai è professionista. Diventa maggiorenne, prende la cittadinanza danese e il paese che l’ha accolta la vuole assolutamente nella nazionale. E, nonostante alcuni cavilli e opposizioni da parte della FIFA, la federazione danese riesce a spuntarla: Nadia Nadim diventa così una delle calciatrici di punta della nazionale danese.
Dal 2019 è anche capitana della squadra francese di calcio femminile Paris Saint-Germain.
Nadia ha raccontato la sua storia in un libro, ancora non tradotto in italiano, per un motivo ben preciso: vuole dare speranza alle persone, perché tutti vivono momenti duri e difficili, ma non bisogna smettere di sperare o di inseguire i propri sogni. Anche quando tutto è buio e sembra non esserci una via d’uscita, bisogna continuare a cercare la luce. Ma questo è possibile solo se qualcuno offre una nuova possibilità, com’è capitato a lei che è stata accolta con rispetto e dignità in un paese straniero, che le ha dato la possibilità di crescere, sognare, lavorare.
Oggi Nadia Nadim ha 33 anni. Continua a giocare a calcio e raccoglie grandi soddisfazioni. È stata anche nominata dall’UNESCO campione per l’educazione dei giovani, grazie anche al suo impegno nel promuovere l’uguaglianza e la parità tra generi. E nel 2017 è stata eletta “danese dell’anno”: Nadia usa la sua visibilità per sostenere buone cause, prende posizioni anche scomode e si fa ascoltare. Ma il suo futuro non è nel calcio.
Perché questa giovane donna straordinaria, non ha mai smesso di studiare, e sta per laurearsi in medicina all’università di Aarhus. E poi potrà realizzare il suo grande sogno. Che non è diventare una campionessa di calcio. Quello ormai lo ha fatto. Quando la sua carriera sportiva sarà finita, lei vorrebbe andare a lavorare per Medici Senza Frontiere.
Per restituire il bene che ha ricevuto quando era ultima tra gli ultimi. E lei non lo ha dimenticato.