Un tempo lì c'era un sicomoro

 Una strada.

Lì c’era un sicomoro, ma ora non c’è più, indica una bambina.
Una bambina che dice di non essere in grado di raccontare nulla.
Non sa raccontare la sua storia, la storia della sua famiglia, perché non ha le parole. Perché è una storia terribile. Ricorda solo le piante, gli ulivi che non ci sono più, il sicomoro.
Abitavano tutti intorno a quella strada, un posto che non è città, ma nemmeno campagna, un posto non particolarmente bello, certo non ricco, non comodo; ma per delle famiglie di contadini, modeste ma unite, era tutto il loro mondo. E loro lo amavano.
Un mondo costantemente in pericolo, ma pensavano di essere relativamente al sicuro.
Finché un giorno, è il 2009, la loro tranquillità è distrutta da droni, fucili, bombe dell’operazione Piombo Fuso.
E ben 29 membri della famiglia Samouni vengono uccisi. Anche un bambino, tra le braccia di sua mamma.
Questa storia che Amal, la bambina, non riesce a raccontare, la racconta un regista italiano, Stefano Savona, nel documentario “La strada dei Samouni”. Un documentario che ricostruisce quei drammatici giorni di Gaza, che ciclicamente si ripetono nel corso del tempo, attraverso le voci dei protagonisti, i loro ricordi, le scene di una vita quotidiana tra il surreale e il tragico. E dove non arrivano i ricordi, il regista usa delle bellissime animazioni in bianco e nero (di Simone Massi) per ricreare i momenti chiave di una storia terribile.
“La strada dei Samouni” ha vinto il Premio della Giuria nella sezione Quinzaine de Réalisateurs al Festival di Cannes nel 2018. È stato presentato al Festival Internazionale del Cinema di Gerusalemme, perché nelle intenzioni del regista, è un film destinato anche a un pubblico israeliano, per far conoscere cosa succede nella striscia di Gaza.
È un film che non conoscevo, e devo ringraziare un’amica di questa pagina che me l’ha segnalato. Ma dopo averlo visto non sono riuscita più a scrivere nulla, tramortita non solo da tanto dolore, ma soprattutto da quella sensazione di assuefazione al dolore dei protagonisti, che noi da qui, dalla nostra prospettiva “occidentale” proprio non possiamo comprendere. Una rassegnazione alla morte, incombente e inevitabile che forse avremmo potuto immaginare all’epoca dei nostri nonni durante la Seconda guerra mondiale. Non saprei.
Ci sono cose che (per nostra fortuna) non possiamo capire. Per questa ragione un documentario, come questo di Stefano Savona, può essere necessario.